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lunedì 7 settembre 2015

Dizione standard: quale italiano e quali ambiti di lavoro




Un aneddoto racconta che durante la ribellione dei Vespri siciliani, gli abitanti della Sicilia uccisero gli occupanti francesi che, interpellati, non sapevano pronunciare correttamente la parola siciliana "ciciri" ('ceci'). Si tratta di una variatio sul tema dello Shibboleth, narrato nel Libro dei Giudici (12, 5-6): dopo un combattimento, i Galaaditi volevano impedire la fuga dei loro nemici sopravvissuti, gli Efraimiti. Questi ultimi, al momento di fuggire attraverso il fiume Giordano, dovevano quindi essere fermati e individuati come tali e a tal fine si elaborò un test specifico: chi veniva fermato doveva pronunciare correttamente la parola Shibboleth. Siccome, nel loro repertorio fonetico, gli efraimiti non possedevano il suono [ʃ] (come il primo suono del termine italiano "sciarpa"), il test era efficace, e chi sbagliava la pronuncia veniva ucciso.

Qual è la nostra lingua materna? Una risposta frettolosa potrebbe essere <<l'italiano>>, <<l'inglese>>, ... A livello sociolinguistico, possiamo affermare che l'Italia presenta su tutto il territorio nazionale una situazione definibile come una forma particolare di "diglossia", "Lingua cum dialectis". La nostra lingua materna è allora l'italiano ("lingua") o un dialetto? Se siamo sicuri che la nostra lingua madre sia la "Lingua", dobbiamo chiederci quale variante regionale parliamo. Per rispondere a tali quesiti, la maggior parte dei lettori si sarà chiesta in quale lingua pensa, o in quale lingua parla più frequentemente. Un quesito dal valore diagnostico più accurato sarebbe tuttavia il seguente: "quale repertorio fonetico utilizzo nell'eloquio spontaneo?". Con "repertorio fonetico" indichiamo qui, in parole povere, l'insieme di suoni e melodie che utilizziamo nel parlato. Raramente però un individuo ha capacità autodiagnostiche così sviluppate da permettergli di valutare il grado di neutralità del proprio eloquio ed eventualmente modificarlo. Infatti:

- Le abitudini fonatorie (fonetiche e fonologiche), acquisite nei primi anni di vita, vengono immagazzinate nella memoria implicita diventando quindi automatiche ed "inconsce";

- Cambiare il proprio modo di parlare è un compito difficile, non solo a livello pratico, ma soprattutto a livello psicologico (si tratta di cambiare l'intera immagine di sé, il che non è facilmente "tollerabile");

- E' alquanto raro avere feedback positivi nella vita quotidiana: il contesto socioculturale in cui si è inseriti percepisce una pronuncia neutra come "diversa" e incongrua, o addirittura "snob" (il che porta spesso a feedback psicologico negativo in quanto il parlante si sente escluso da una comunità);


- Non esiste una comunità di parlanti di riferimento: l'italiano neutro è un'astrazione, non una varietà linguistica parlata in una determinata regione geografica.

Approfondiamo l'ultimo punto. L'italiano è stata una lingua quasi solo scritta per molti secoli: quando dovevano parlare, gli abitanti delle varie regioni italiane, indipendentemente dal censo, dall'istruzione, dall'età, usavano il dialetto. Quando - successivamente- si è imposta l'esigenza di una lingua unitaria nazionale anche nella comunicazione orale, la pronuncia dell'italiano che si è venuta formando nelle più diverse regioni non poteva che subire una forte interferenza della fonologia della parlata locale (...) per cui risulta molto difficile definire una sola fonologia dell'italiano: ci troviamo in realtà di fronte a un insieme (in termini tecnici: un diasistema) di almeno una ventina di fonologie dell'italiano. (Mioni, 1993, pp. 02-103). Nessuna di queste pronunce regionali è riuscita ad imporsi come effettivo modello nazionale: né quella fiorentina, né l'asse tosco-romano preconizzata negli anni Trenta e Quaranta (Berruto, 1987, p. 96). Ma allora che cos'è l'italiano neutro? I cosiddetti "professionisti della dizione" hanno adottato e proposto una parlata un po' artificiale (nel senso che non ha una realizzazione diatopica concreta, ovvero non è parlata in una zona geografica precisa), la quale prendendo come riferimento di partenza il toscano, lo depura delle particolarità locali. Contemporaneamente, l'addestramento pratico in questo modello - come afferma Mioni - tenta di espungere, nella pronuncia dei suoni, qualsiasi inflessione dialettale, allo scopo di rendere irriconoscibile la provenienza regionale del parlante. Ecco dunque che lo "Standard" può essere definito come un continuum di accenti che - a livello percettivo - non sembrano denotare caratteristiche articolatorie regionali, etniche o socioeconomiche. Tale definizione sembra essere condivisa da molti linguisti, anche se non mancano le eccezioni. Secondo Nora Galli de' Paratesi (1984) esiste in realtà un modello di pronuncia che si è storicamente imposto in Italia. Tale modello non sarebbe quello dei fiorentini colti, né tantomeno quello romano, ma piuttosto un modello emendato dai tratti più tipicamente fiorentini e assunto e reinterpretato al Nord-Ovest (Milano), da dove, grazie alla forza di penetrazione di una comunità egemone sul piano economico e culturale, si va lentamente espandendo in tutta Italia, compresa la Toscana (cfr. Lo Duca, 2013).


Per ascoltare un italiano (più o meno) neutro dobbiamo quindi rivolgerci ai professionisti radiofonici (ma non tutti..), agli esperti doppiatori di film in italiano, ad alcuni attori. Sono state realizzate delle opere che tentano di codificare l'italiano standard, quali ad esempio il Dizionario di Pronuncia Italiana (DOP), ora disponibile anche in una versione online (http://www.dizionario.rai.it/), o il Dizionario di Pronuncia Italiana (2009) di L. Canepari, il quale contempla diversi tipi di pronuncia per molti lessemi: la pronuncia "moderna", quella "tradizionale", "accettata", "tollerata", "trascurata", "intenzionale", "aulica" (cf. http://venus.unive.it/canipa/dokuwiki/doku.php?id=en:start).

Ma cosa implica lo studio della "dizione"? Alla luce di quanto detto sopra, è vantaggioso considerare l'acquisizione dell'italiano neutro come l'apprendimento di una lingua straniera o, meglio, di un dialetto secondo.

Molti di coloro che frequentano corsi mirati (di cui l'Italia pullula) si vantano di sapere qual è la pronuncia corretta di determinate parole (ad esempio <<si dice "Bene" con la "e aperta", non chiusa>>) ma esibiscono poi una modalità d'eloquio smaccatamente regionale che fa apparire quasi ridicoli gli sforzi di pronunciare correttamente le "e" e le "o". Questo perché la "dizione" è un ambito pluridisciplinare che abbraccia molti settori della fonetica articolatoria (branca della linguistica che si occupa dello studio dei suoni della lingua), non solo la questione dell'apertura o chiusura delle vocali. Vediamo brevemente quali sono le aree di studio.

1. Ortofonia: (da orthόs e phσné) si riferisce all'esatta produzione di vocali e consonanti della lingua. Si tratta di capire quale schema motorio è all'origine dello spettro sonoro dei fonemi della lingua. Nella produzione delle vocali si presterà particolare attenzione alla posizione della lingua, delle labbra e della mandibola. Nelle consonanti ci si concentrerà sul modo e luogo di articolazione. In quest'ambito si cercherà di eliminare difetti articolatori che portano a pronunce anomale o non standard, ivi inclusi fenomeni quali il rotacismo ("erre moscia" o comunque non alveolare) e il sigmatismo (problema di realizzazione della esse), a patto che questi non siano conseguenti ad alterazioni muscoloscheletriche di competenza ortodontica o comunque logopedica. Si accerta - in quest'area di studio - anche la corretta assimilazione delle regole fonologiche della lingua in questione, nonché dell'effettiva realizzazione corretta dei vari allofoni previsti nella cornice dei fenomeni di coarticolazione (ad esempio la realizzazione del fonema /n/ è diversa nelle parole "anno" e "incontro" a causa di fenomeni di assimilazione che possono differire tra italiano neutro e italiano regionale).

2. Ortoepia: (da orthόs e épos) si riferisce all'uso corretto di e/o (aperta o chiusa), s (sorda o sonora), [ts] e [tz], all'accento di parola appropriato (ad esempio: si dice "ìnfido" o "infìdo"?), alla durata dei fonemi e ad altri fenomeni quali la geminazione (auto-geminazione, pre-geminazione, pos-geminazione, de-geminazione, cogeminazione/raddoppiamento sintattico). Si tratta quindi dell'ambito che la maggior parte delle persone associa alla "dizione" in senso stretto, ma che rappresenta in realtà solo una piccola parte dell'argomento, assai più complesso.

3. Intonazione: lo studio del set di contorni intonativi standardizzato in ogni lingua per fare asserzioni o porre domande. L'apprendimento dell'uso delle tonìe standard (tonìa conclusiva, sospensiva, continuativa, interrogativa...) è l'elemento a mio parere principale che si dovrebbe studiare per attenuare una cadenza regionale, in quanto esse rappresentano la "melodia" della lingua, la quale tende a giungere al nostro orecchio prima delle "singole note" (ovvero i singoli fonemi), in condizioni di ascolto normale.

4. Ortologia: (da orthόs e lόgos), lo studio della resa vocale delle intenzioni comunicative. Si tratta qui di analizzare ed allenare qualità foniche, prosodiche e parafoniche della voce per rendere i contenuti più efficaci e pregnanti. Tono, volume, tempo, mordente, in riferimento all'emozione da comunicare.. l'ortologia è il sottocampo più musicale dello studio della "dizione". Molti tendono a pronunciare le frasi in un modo che non rende l'emozione che intendono comunicare (dicendo, ad esempio, <<Le vacanze sono andate bene..>> con un tono di voce "grigio" e "spento" che non traduce l'idea del divertimento e della gioia che hanno provato nel corso delle stesse); la parafonica mira dunque a insegnare a sintonizzare la propria modalità comunicativa con le proprie reali intenzioni emotive.

5. Articolazione e respirazione: per "articolazione" intendiamo una generale tonicizzazione dell'articolatore attivo (lingua) e delle labbra, nonché una sufficiente apertura della bocca. Sufficiente, non eccessiva (troppo spesso si vedono studenti dei corsi di dizione che acquisiscono tensioni e pattern muscolari svantaggiosi in nome di una maggiore "articolazione"). L'articolazione dei fonemi nel parlato non va confusa con quella nel canto: in quest'ultimo, se di stampo pop o comunque moderno, si cerca di rimanere il più vicini possibile al parlato, ma in alcune zone frequenziali sono necessari degli aggiustamenti a livello linguale e laringeo. Per questo motivo guardo con sospetto a tutte quelle metodologie di allenamento vocale per cantanti che puntano ad esagerare l'articolazione tipica del parlato...(ulteriori informazioni in un post futuro..). Lo studio della respirazione nel parlato ha in comune con il canto la ricerca di un efficace accordo pneumofonico, senza pressione aerea eccessiva, nonché di mettere in grado il parlante di articolare frasi lunghe con un solo fiato, se necessario. Nel parlato essa tuttavia assume anche la funzione di stimolo rilassante, il quale rallenta il battito cardiaco e - forse - promuove una posizione laringea rilassata/un po' più bassa tramite il fenomeno del pull tracheale (ipotesi, questa, tutt'ora dibattuta).

6. Risonanza e qualità vocale: il training della voce parlata tende ad impostare una qualità vocale che, a livello spettrografico, presenta un ampio spettro armonico. Ciò è motivato dal fatto che l'intelligibilità di un eloquio è direttamente proporzionale alla quantità degli armonici presenti, specialmente all'interno dell'area al di sotto dei 3000 Hertz circa. Tale qualità vocale è correlata - a livello anatomofisiologico - ad un'ampia superficie di contatto cordale, rippling della mucosa di rivestimento delle pliche e sufficiente contrazione del muscolo vocale. Il tutto senza "costrizioni" dannose a carico della laringe. Spesso si sente far riferimento a questa qualità come "voce di petto", e non manca chi fa mettere la mano sul petto per stimolare questo tipo di risonanza. Non è un caso che la maggior parte delle (belle) voci che sentiamo in radio e nei doppiaggi siano voci profonde e sonore. 

Ognuno può emettere una qualità vocale che risulti da una piena vibrazione delle pliche vocali, ma il risultato acustico (ovvero quanto profonda sarà la voce e quindi quanto possiamo avvicinarci a ipotetici modelli di riferimento radiofonici..) dipenderà in primis dalle dimensioni della laringe e del filtro vocale, caratteristiche cioè legate alla genetica e non modificabili di molto nemmeno con il migliore dei training.



Come in ogni programma di formazione che si rispetti, bisogna individuare le aree di intervento prioritarie e seguire un programma di training giornaliero che sia incrementale e mirato a colmare le lacune individuali. A titolo esemplificativo, sentire qualcuno che parla con un'ortoepia perfetta ma con una voce monotona, stridula e intonazione fortemente regionale fa un po' sorridere.. specialmente se costui si vanta di aver "studiato dizione". Per maggiori informazioni sul training della voce parlata:

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